Published in Centro Studi Sereno Regis. Translation by Benedetta Pisani.
Come i movimenti sociali stanno utilizzando il concetto di “riforma non riformista” per promuovere un cambiamento di vasta portata. Ecco come rendere le richieste dei movimenti sia pratiche che visionarie.
Quando si tratta di valutare una certa richiesta o proposta di riforma, i movimenti sociali affrontano un dilemma comune. In risposta alla pressione generata dagli attivisti, i politici tradizionalisti esortano costantemente alla pazienza e alla moderazione. Nel migliore dei casi, approvano in modo frammentario solo le riforme che ritengono ragionevoli e pragmatiche. Il risultato è un ritocco tecnocratico che potrebbe offrire piccoli guadagni ma che non mette in discussione le fondamenta dello status quo. D’altra parte, quando accade che facciano questo tipo di concessioni, alcuni attivisti non vogliono accettare un “sì” come risposta. Temono che accettare qualsiasi riforma significhi abbracciare la cooptazione e diluire la loro visione radicale. Di conseguenza, finiscono in un circolo di autoisolamento.
Come si fa, allora, a decidere quando una richiesta è valida da perseguire e quando vale la pena accettare una riforma? Come possono i movimenti soppesare il desiderio di ottenere guadagni pratici ed evitare l’emarginazione con il bisogno di mantenere una visione trasformativa?
In passato, i dibattiti su questo tema si sono spesso svolti in una cornice che contrappone la riforma alla rivoluzione. Chi sosteneva che i movimenti potessero andare avanti solo a passi incrementali si scontra con chi credeva che il sistema dovesse essere drasticamente sostituito in un momento di rottura. Ma negli anni ’60, il teorico austro-francese André Gorz tentò di interrompere questa dicotomia rigida e offrire ai radicali un percorso alternativo. Egli propose che, in situazioni in cui la rivoluzione era desiderabile ma non imminente, i movimenti avrebbero dovuto perseguire riforme “non-riformiste” o “strutturali” – cambiamenti progettati per fare una differenza pratica nel breve periodo, mentre si si continuano a perseguire trasformazioni più grandi.
Le riforme non riformiste sarebbero caratterizzate da diversi tratti chiave. Prima di tutto, invece di essere considerate come fini a se stesse, devono essere viste come passi verso una visione più ampia del cambiamento. In secondo luogo, non dovrebbero essere semplicemente consegnate a burocrati e politici, ma piuttosto conquistate attraverso l’organizzazione e la protesta da parte di un movimento. E infine, ogni riforma dovrebbe essere progettata per cambiare l’equilibrio di potere tra i movimenti e le istituzioni, ponendo i sostenitori in una posizione più adatta a intraprendere battaglie per un cambiamento ancora maggiore in futuro e per iniziare nuovi cicli di mobilitazione.
Gorz era ben consapevole dei pericoli di cooptazione e della capacità delle istituzioni di assorbire le sfide esterne. Dal momento che, parole sue, qualsiasi cambiamento potrebbe crescere “disarticolato, controllato e digerito dal sistema” nel tempo, la volontà di impegnarsi in una lotta continua era essenziale. Solo in questo modo una serie successiva di piccoli cambiamenti poteva diventare parte di una “progressiva conquista del potere” da parte delle forze di movimento.
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Fissare gli standard
Dai tempi di Gorz, il concetto di riforma non riformista è stato invocato da una vasta gamma di attivisti, dagli anarchici ai liberali di sinistra dell’American Prospect. È stato frequentemente impiegato dai socialisti democratici negli Stati Uniti – erano in pochi nell’era di Reagan e di Obama, ma hanno visto i loro ranghi gonfiarsi dopo le corse elettorali di personaggi come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez – spesso per difendere richieste come il New Deal verde o Medicare for All. E il concetto si è fatto strada nei recenti dibattiti dei movimenti sociali.
“The Red Deal“, un manifesto pubblicato nel 2021 da un gruppo di indigeni chiamato The Red Nation, adotta riforme non riformiste come parte centrale della sua strategia. Facendo eco alla valutazione di Gorz sulle condizioni in Europa negli anni ’60, gli organizzatori sostengono:
“Non dobbiamo allontanarci dalla verità. Non possediamo ancora la capacità di rivoluzione, altrimenti avremmo visto un movimento di massa unificato uscire dalla notevole energia rivoluzionaria dell’ultimo decennio. Eppure, abbiamo pochissimo tempo per arrivarci”.
Appoggiando un tipo di “riforma non riformista che non limita la possibilità di ciò che lo status quo offre, ma che sfida fondamentalmente la struttura esistente del potere”, The Red Nation cerca di tracciare un percorso che permetta di portare avanti campagne su cambiamenti a breve termine; mentre spinge anche per una revisione strutturale. Questi organizzatori proclamano il loro intento di distruggere il sistema “al fine di sostituirlo”, e lo vedono come un processo che può avvenire sia attraverso lo sconvolgimento che attraverso “un milione di piccoli tagli”. Le riforme non riformiste preparano il terreno per condurre la seconda strategia.
Quando si tratta di nominare esempi specifici, The Red Nation indica attività che vanno dalla politica elettorale alla protesta, fino al mutuo soccorso. “Le nostre riforme non riformiste sono molteplici”, scrive il gruppo. “Assomiglieranno a radicate reti indigene dove migliaia di agricoltori sostenibili condividono, scambiano e nutrono le loro comunità. E assomiglieranno a corse di successo per le elezioni del consiglio comunale dove i candidati di sinistra si impegnano a implementare una piattaforma popolare per il clima e la giustizia sociale a livello cittadino e municipale. Assomiglieranno a campi di ritorno o a risoluzioni del consiglio tribale che rifiutano gli insediamenti coloniali per l’acqua. … Qualunque forma assumano, dobbiamo semplicemente metterci al lavoro”.
La varietà di gruppi che si sono interessati alle riforme non riformiste evidenzia il fatto che la definizione di Gorz del concetto è abbastanza ambigua da invitare al dibattito su quali richieste specifiche dovrebbero o non dovrebbero essere incluse. Dato che diversi gruppi e singoli strateghi hanno formulato le loro iterazioni dell’idea, ciascuno di questi ha spesso fornito liste di domande utili per gli attivisti nella valutazione di una riforma. Esempi da varie fonti includono:
“L’iniziativa aumenta la decentralizzazione e la diffusione del potere e del controllo, sia economico che politico, piuttosto che la loro concentrazione?”
“Ci avvicina a una visione emancipatrice, o ci mette in una posizione migliore per raggiungerla[?]”.
“Questa lotta fa pressione sulle linee di faglia dello Stato?”
“Legittima o espande un sistema che stiamo cercando di smantellare?”
“Una volta concluso, sarà tutto da disfare?”.
Queste domande divergono nel loro contenuto ideologico, e alcune sono più coerenti di altre con l’intento originale di Gorz. Ma non è necessario che tutti i gruppi concordino su uno standard assolutamente uniforme per i cambiamenti che approvano. Infatti, uno dei punti principali del concetto è quello di consentire un dibattito strategico, che non sia basato né su schemi utopici né su quegli stretti confini di ciò che i legislatori dell’establishment concepiscono come conveniente, ma piuttosto sul desiderio di un movimento di creare vittorie che possano costruirsi l’una sull’altra.
Come scrive l’autrice e giornalista Meagan Day, rivolgendosi ai membri del Democratic Socialists of America, “i socialisti possono avere ragionevoli disaccordi su ciò che costituisca esattamente una lotta per le riforme strutturali. Questo va bene, ed è esattamente il tipo di dibattito che la sinistra socialista dovrebbe avere con se stessa”. Aggiunge: “Dovremmo, tuttavia, rinunciare a concezioni che contrappongono le lotte per le riforme all’obiettivo finale del socialismo come un diverso tipo di società. La conclusione logica dell’ostilità alle lotte riformiste è l’astensione dai continui sforzi dei lavoratori per migliorare la loro qualità di vita. Questo tipo di perpetuo riscaldamento in panchina porta a una sorta di isolamento settario reso sterile dalla mancanza di un contatto significativo con i milioni di persone che attualmente stanno fuori dall’ovile”.
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Riforma e abolizione
Forse l’impegno più vivace nel concepimento di riforme non riformiste è venuto dagli abolizionisti delle prigioni e della polizia, molti dei quali danno credito a Ruth Wilson Gilmore per aver reso popolare il concetto. (Infatti, gli organizzatori della Red Nation sostengono siano stati questi attivisti ad aver ispirato la loro stessa idea).
Nel suo libro del 2007, “Golden Gulag“, Wilson Gilmore invita gli abolizionisti a cercare “cambiamenti che, alla fine della giornata, disfino piuttosto che allargare la rete del controllo sociale attraverso la criminalizzazione”. Lei nota che tali obiettivi strutturali sono particolarmente difficili da raggiungere quando i movimenti diventano eccessivamente professionalizzati e legati a finanziatori benestanti. Eppure sostiene che la dedizione a questo percorso è comunque necessaria, scrivendo che “le cronache delle rivoluzioni mostrano tutte come persistenti e piccoli cambiamenti, nonché consolidamenti del tutto inaspettati, si sono sommati a un peso sufficiente, nel tempo e nello spazio, per causare una rottura con il vecchio ordine”.
In un saggio del giugno 2020 della Boston Review sulla lunga lotta per i diritti civili contro la polizia e l’incarcerazione, il professore di storia afroamericana Garrett Felber scrive: “La relazione tra l’abolizione (come obiettivo) e la riforma (come mezzo per raggiungere un fine) rimane un dibattito vivo”. Egli cita una varietà di obiettivi specifici che sono stati inclusi nelle richieste di cambiamento intermedio. “Esempi di riforme non riformiste”, nota Felber, “includono, ma non si limitano a: abolire l’isolamento e la pena capitale; moratorie sulla costruzione o l’espansione delle prigioni; liberare i sopravvissuti alla violenza fisica e sessuale, gli anziani, gli infermi, i giovani e tutti i prigionieri politici; riforma delle sentenze; porre fine alle cauzioni in contanti; abolire il monitoraggio elettronico, la polizia “broken windows” e la criminalizzazione della povertà; e una garanzia federale di lavoro e casa per gli ex detenuti”.
Mentre la riforma della polizia e l’abolizione sono spesso accostate l’una all’altra come paradigmi in competizione, Mariame Kaba, una delle principali pensatrici abolizioniste, usa il concetto di riforme non riformiste per suggerire aree sovrapposte. “In qualche modo quello che la gente pensa è che o sei interessato alla riforma o sei un abolizionista – che devi scegliere se essere in un campo o nell’altro”, ha spiegato Kaba in un’intervista del 2017. “Io non la penso così.
Per alcune persone, la riforma è il focus principale e l’obiettivo finale, mentre l’abolizione è l’orizzonte. Ma non conosco nessuno che sia un abolizionista … che non sostenga nessuna riforma”. Kaba afferma che è legittimo essere preoccupati che una data riforma possa finire per rinforzare il sistema, ma mette in guardia sulla trappola del “non possiamo fare nulla finché non rovesciamo lo stato”. Come guida alla scelta delle richieste, chiede: “Come possiamo pensare a riforme che non ci rendano più difficile smantellare i sistemi che stiamo cercando di abolire? Che non rendano più difficile creare cose nuove? Quali sono le riforme … che ci aiuteranno a muoverci verso l’orizzonte dell’abolizione?”
Alla fine del 2014, tra le diffuse proteste di Black Lives Matter, Kaba ha scritto un post sul blog proponendo standard di riforme più concreti che i movimenti dovrebbero sostenere, e suggerendo quali dovrebbero evitare di approvare. Consigliava agli attivisti di rifiutare le riforme che assegnavano più soldi ai dipartimenti di polizia; che sostenevano “più polizia e controllo (in termini eufemistici,’polizia comunitaria’ … )”; che erano principalmente basate sull’uso della tecnologia; o che “si concentravano su dialoghi individuali con” gli agenti di polizia. Tra le altre misure, ha sostenuto che i movimenti dovrebbero invece sostenere richieste che forniscano risarcimenti alle vittime della violenza della polizia, che reindirizzino i fondi per la prigione e la polizia verso altri beni sociali, o che “promuovano la trasparenza dei dati”.
Il post fu una sensazione inaspettata, e sarebbe diventato un punto di riferimento nei dibattiti per gli anni a venire. “L’ho scritto così in fretta”, riflette Kaba. “Mi sono state poste alcune domande da diversi giovani organizzatori che si identificano come abolizionisti, i quali stavano lottando con forza contro una serie di proposte, come le body cam e altre. Questi organizzatori volevano sostenere qualcosa, ma non sapevano di preciso cosa e non pensavano di riuscire a capirlo da soli. Ho scritto quel pezzo molto velocemente e l’ho messo sul mio blog. È diventato virale – qualcuno mi ha mandato una mail da Londra per informarmi che lo stanno consultando anche lì. Mio Dio, è davvero incredibile e fantastico che qualcosa sia utile a molte persone”.
Nel 2020, durante le rivolte di massa sulla scia dell’omicidio di George Floyd da parte della polizia, il dibattito sulle richieste del Movimento per le vite nere si è riscaldato ulteriormente. Mentre le proteste aumentavano all’inizio di giugno di quell’anno, Campaign Zero, un’organizzazione co-fondata dal prominente, anche se controverso, attivista DeRay Mckesson ha lanciato una campagna chiamata #8CantWait.
Questa iniziativa ha presentato una serie di richieste immediate che ha inquadrato in “otto riforme specifiche che le comunità locali possono adottare per ridurre la violenza della polizia fino al 72%”. Queste includevano varie misure, come il divieto per la polizia di usare manette e di sparare a veicoli in movimento, richiedendo agli agenti di fornire avvertimenti verbali prima di usare la forza fisica, e obbligando la polizia a fornire un rapporto completo ogni volta che hanno usato o minacciato di usare la forza contro i civili. La lista è stata ampiamente condivisa sui social media e ha ottenuto l’approvazione sia dei politici tradizionali (come l’ex candidato democratico alla presidenza Julián Castro) che delle celebrità (tra cui Oprah Winfrey e Ariana Grande).
Molti attivisti, tuttavia, non erano per niente convinti delle riforme proposta dalla Campaign Zero e si sono scagliati contro i suoi creatori. Le richieste, hanno affermato, erano “senza denti” e “irresponsabili” – o forse anche “pericolose” – nell’ignorare proposte di cambiamento più approfondite. Il tumulto ha rivelato una spaccatura che sarebbe diventata oggetto di una considerevole discussione.
È interessante notare che alcune delle riforme di #8CantWait potrebbero essere considerate coerenti con gli standard di Kaba per le riforme delineati nel suo post del 2014. Non erano basate sulla tecnologia, premesse su un’estesa attività di polizia comunitaria, o focalizzate sul dialogo con i singoli agenti. Richiedere la segnalazione, per esempio, promuove la trasparenza dei dati ed è un drenaggio di risorse per i dipartimenti di polizia, che sono costretti a passare più tempo sulle scartoffie. Altre riforme proposte dalla Campagna Zero non sarebbero considerate controverse di per sé: Dopo tutto, nessun abolizionista vuole che la polizia spari con le pistole ai veicoli in movimento. Che cosa, allora, ha suscitato la controversia?
Un primo problema è stato che, violando uno degli standard chiave di Gorz, Campaign Zero non ha offerto le sue richieste come passi incrementali al servizio di qualcosa di più grande. Piuttosto, hanno presentato la loro lista di riforme come la soluzione, invocando “prove” dalla scienza dei dati per dare alle loro proposte una patina di obiettività. Non sorprende che i meriti dei dati utilizzati si siano rivelati molto discutibili – e l’idea che il problema della violenza della polizia contro le comunità di colore possa essere sostanzialmente risolto con alcune piccole modifiche rimane alquanto dubbia.
In secondo luogo, c’era la sensazione che le richieste vendessero il movimento al ribasso. In un momento in cui le proteste di massa erano pronte a portare avanti cambiamenti ambiziosi nell’istituzione della polizia americana, le richieste di #8CantWait, nelle parole di un attivista citato da Colorlines, hanno offerto “una facile via d’uscita per i politici”. La lista di riforme ignorava completamente l’idea centrale, che stava rapidamente guadagnando trazione, che il paese dovrebbe reindirizzare le risorse dalla polizia ai servizi sociali. Inoltre, da una prospettiva organizzativa, le richieste ristrette di #8CantWait non erano al passo con l’imperativo di radicalizzare una marea di nuovi manifestanti e radunarli intorno a una visione più profonda del cambiamento.
I critici hanno sottolineato che molte delle riforme proposte da #8CantWait erano già state adottate dai principali dipartimenti di polizia. Come ha scritto la commentatrice Olivia Murray per la Harvard Civil Rights-Civil Liberties Law Review, “infatti, i più grandi dipartimenti di polizia del paese hanno già la metà o più di queste politiche in atto, tra cui la polizia di New York City, Chicago, Los Angeles e Philadelphia. A Chicago, dove la polizia è soggetta a sette delle otto politiche, sembra ci sia poco spazio per i miglioramenti proposti dalla 8 Can’t Wait”. Eppure, ha notato Murray, “la polizia di Chicago uccide ancora i neri a un tasso 27,4 volte superiore a quello dei bianchi”. Invece di essere orientate alla costruzione del potere del movimento per la lotta continua, le richieste di #8CantWait pretendevano di applicare “la scienza” per creare una risoluzione tecnocratica.
Di fronte a un’ondata di reazioni, Campaign Zero si è scusata per aver “involontariamente distratto gli sforzi dei colleghi organizzatori impegnati in cambiamenti paradigmatici che sono di nuovo possibili in questo momento”. Ha anche aggiunto materiale al suo sito web indicando che le otto richieste erano intese solo come una strategia immediata di riduzione del danno, e che proposte più sostanziali per la “sicurezza globale della comunità” e “l’abolizione” erano necessarie nel lungo periodo.
Ma a quel punto, una campagna rivale chiamata #8toAbolition aveva rilasciato la propria lista di proposte che, imitando l’infografica di Campaign Zero, chiedeva misure per defundare la polizia, smilitarizzare le comunità, rimuovere i poliziotti dalle scuole e investire nell’assistenza. Il gruppo abolizionista Critical Resistance ha analogamente promosso una propria rubrica per distinguere le riforme riformiste da quelle abolizioniste. Nel complesso, la controversia ha aumentato il profilo del dibattito interno e ha diffuso la consapevolezza della richiesta di riforme non riformiste a nuovi partecipanti.
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Un’ecologia di richieste
Ci sarà sempre tensione tra i movimenti con una visione trasformativa, da un lato, e i politici più mainstream e i riformatori liberali, dall’altro. I funzionari eletti e altri attori orientati all’establishment – anche quelli che affermano di essere solidali con gli obiettivi del movimento – sosterranno in modo affidabile qualsiasi compromesso sia politicamente conveniente in un dato momento. Essi consiglieranno agli attivisti che un tale accordo è il meglio che possono sperare di ottenere e che è meglio di niente.
Mentre c’è spesso un po’ di verità in questa posizione, questi funzionari non riconoscono che ci sono autentici lati negativi in molti accordi. In primo luogo, le riforme possono smorzare le energie degli attivisti e deviare l’attenzione pubblica, causando la smobilitazione. Secondo, una vittoria su un punto di contesa spesso arriva al costo di una concessione su un altro punto, il che può significare abbandonare un’importante circoscrizione. In terzo luogo, i compromessi possono spostare l’attenzione dalla promozione di nuove richieste a questioni di come le riforme passate saranno implementate e monitorate, a volte cooptando gli organizzatori del movimento in ruoli amministrativi. Infine, come avverte Gorz, a meno che un nuovo ciclo di mobilitazione sia prontamente avviato, un cambiamento incrementale può essere tranquillamente assorbito nel sistema, il suo potenziale trasformativo si consuma costantemente con il passare del tempo.
I gruppi del movimento sociale, quindi, devono impegnarsi in un complesso calcolo quando considerano tali riforme, soppesando questi aspetti negativi contro i possibili benefici a breve termine per i loro gruppi. Non tutti i gruppi arriveranno alle stesse conclusioni. Anche tra quelli con aspirazioni radicali, ci saranno disaccordi sul fatto che una particolare richiesta sia valida o che un particolare compromesso sia utile in un dato momento.
Una trappola che le organizzazioni incontrano comunemente è l’assunzione che la richiesta che hanno scelto come più strategica per le loro campagne sia la stessa che tutti i gruppi daranno come priorità. Anche se tale allineamento fosse desiderabile – anche se non è sempre il caso – non è realistico aspettarsi che si verifichi frequentemente. I gruppi portano ideologie diverse, rappresentano circoscrizioni diverse, attingono a diversi flussi di finanziamento e possiedono diverse teorie di cambiamento. Anche una volta che un’organizzazione di movimento decide cosa è giusto per lei, il gruppo dovrà ancora impegnarsi in un processo decisionale sfumato su come relazionarsi con le priorità degli altri.
La lente dell‘ecologia dei movimenti sociali fornisce un mezzo per capire come i diversi gruppi calcolano le loro richieste – e per elaborare strategie su come interagire con questi diversi attori. Invece di guardare gli sforzi per creare il cambiamento dalla prospettiva di una singola organizzazione, questo punto di vista prende in considerazione l’intero ecosistema di persone che lavorano su un problema. Riconosce i diversi modelli organizzativi e gli insiemi di pregiudizi che i vari gruppi portano. In questi ecosistemi sono incluse posizioni diverse: individui che cercano di fare pressione dall’interno o lavorano nelle istituzioni di potere, gruppi impegnati nell’organizzazione basata sulla struttura (come i sindacati e le organizzazioni comunitarie), movimenti di protesta di massa, e persone che lavorano fuori dal sistema per costruire alternative radicali o per promuovere la trasformazione personale.
I gruppi di ciascuna di queste categorie valuteranno le richieste e le riforme in modi diversi. E anche se alcune organizzazioni possono cercare di adottare approcci strategici multipli o confondere i confini tra le categorie, avranno quasi sempre un orientamento predominante, basato sugli approcci all’organizzazione e sulla teoria del cambiamento più centrale per loro. Per ogni gruppo ci sono aspetti di una richiesta o di una riforma che saranno valutati maggiormente, e queste differenze di prospettiva spesso portano a tensioni tra le organizzazioni in un ecosistema di movimento, anche quando i gruppi professano obiettivi simili.
Quelli che lavorano all’interno delle istituzioni tradizionali si chiederanno: “Una riforma proposta fornisce un guadagno immediato e tangibile che soddisfa un bisogno della comunità?” In altre parole, sono interessati al valore strumentale di una data richiesta o compromesso. Valuteranno il suo valore in base al beneficio concreto che fornisce a una o più circoscrizioni mirate.
Per i politici machiavellici, tali guadagni sono parti importanti delle loro operazioni clientelari ed essenziali nelle loro spinte a preservare il potere politico; tuttavia, essi perseguiranno questi cambiamenti solo se non generano una significativa opposizione o non alienano altre parti della coalizione che li sostiene. I radicali che tentano di prendere il controllo delle leve del potere e tirarle verso la giustizia saranno anche interessati a riforme incrementali che portano miglioramenti concreti nella vita delle persone. E, poiché stanno lavorando per spingere i migliori accordi possibili attraverso i canali legislativi e burocratici, la fattibilità a breve termine di una richiesta modellerà in gran parte la loro percezione del suo valore.
Le organizzazioni basate sulla struttura sono certamente interessate ai benefici strumentali che una riforma potrebbe portare ai loro membri. Ma i leader più visionari di questi gruppi si chiedono anche: “Cambierà l’equilibrio di potere nel sistema?”. In questo senso, i sindacati spesso si impegnano a “contrattare per organizzare“, ottenendo concessioni dai datori di lavoro o da altri detentori del potere che permettono loro di portare nuovi membri e quindi ottenere una maggiore capacità di impegnarsi in lotte future.
Per i movimenti di protesta di massa, una domanda critica da porre a ciascuna richiesta è: “Influenza l’opinione pubblica e raccoglie il sostegno attivo alla nostra causa?” Qui, la risonanza simbolica di un cambiamento proposto è la chiave. Il valore di una richiesta sta nel attirare blocchi sempre più grandi di pubblico verso una causa (espandendo così il sostegno passivo a un movimento) o nel radunare la base del movimento e portare un maggior numero di partecipanti attivi.
Infine, per coloro che lavorano per creare alternative al di fuori delle istituzioni dominanti o per promuovere la trasformazione personale, una domanda centrale sarà: “La richiesta educa la gente o costruisce la legittimità per un programma di cambiamento più profondo?” La priorità di questi attivisti è di mantenere l’integrità di una visione trasformativa e promuovere la consapevolezza di essa.
Se una richiesta è immediatamente attuabile – e se risuona con il pubblico più ampio – è di minore importanza. Se gli addetti ai lavori concentrati sugli aspetti strumentali di una riforma danno priorità all’impatto a breve termine di un cambiamento, quelli che spingono verso alternative hanno una visione più lunga. E se gli organizzatori di proteste di massa si concentrano sul raggiungere un pubblico esterno più ampio, quelli che costruiscono alternative stanno lavorando per costruire una comunità più piccola e dedicata che prefiguri i valori della società che alla fine vogliono creare.
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Un passo verso strategie migliori
Comprendere l’ecologia del movimento sociale che circonda una questione permette una maggiore comprensione dei conflitti che sorgono tra i diversi gruppi. E mentre un apprezzamento delle diverse prospettive non richiede necessariamente di concludere che tutti gli attori abbiano ugualmente ragione nella loro valutazione di una richiesta o di un compromesso, riconoscere le diverse posizioni e pregiudizi aiuta i gruppi a massimizzare il contributo strategico che possono dare.
In definitiva, l’idea di riforme non riformiste rappresenta una sfida sia per coloro che si concentrano su guadagni a breve termine sia per quelli che mirano a una trasformazione a lungo termine. Per gli organizzatori preoccupati del valore immediato dei cambiamenti incrementali, il concetto rappresenta una spinta a pensare più in grande – a guardare oltre le circostanze attuali e adottare una strategia che sia allineata con una visione più sostanziale del cambiamento. Allo stesso tempo, l’idea di riforme non riformiste incoraggia i radicali a essere decisi nel tracciare un percorso di azione pratica. Li spinge non a rimanere puri, ma a conservare dei principi in tempi in cui la purezza non è un’opzione.
A Gorz era chiaro che se i movimenti non erano abbastanza forti per vincere una rivoluzione, non sarebbero stati abbastanza forti per chiedere cambiamenti che smantellassero direttamente il sistema. Come hanno sostenuto gli organizzatori contemporanei, “Non dobbiamo allontanarci dalla verità”. Il punto è creare un percorso attraverso il quale le forze popolari, passo dopo passo, possano costruire forza e cambiare l’equilibrio del potere. È muoversi nella direzione dei desideri di un movimento, anche se, per il momento, non è all’altezza delle sue ambizioni più radicali. È trovare misure che potrebbero essere meno ideali, ma comunque valide, e con esse tracciare una rotta verso la trasformazione.
L’assistenza alla ricerca per questo articolo è stata fornita da Akin Olla.