Come la cancellazione del 100% del debito dei paesi poveri – ora in discussione da parte dei paesi ricchi – si è trasformata da richiesta non plausibile ad argomento vincente e quali ostacoli attendono il movimento per la riduzione del debito. Una vecchia massima dei movimenti sociali (adattata dalla pungente carrellata di Schopenhauer sulla storia delle grandi idee) afferma: “Prima ti ignorano. Poi ti attaccano. Poi vinci.” Per anni, i promotori della campagna per la riduzione del debito nel mondo in via di sviluppo e i loro sostenitori internazionali sono stati oggetto di scarsa considerazione o derisione. Tuttavia, nel 2005 è emersa una nuova domanda: potranno finalmente dichiarare vittoria?
Un decennio fa, nel 1995, agli attivisti che facevano pressione sui leader mondiali per cancellare gli enormi debiti che impedivano lo sviluppo nel Sud globale veniva detto semplicemente: “il debito non è all’ordine del giorno”. Nel 1998, questi stessi gruppi – guidati dalla coalizione per l’annullamento del debito Jubilee – venivano avvertiti che stavano chiedendo troppo e con troppa durezza. “Se ne fate una campagna” – scrisse un giornalista – o “usate un linguaggio estremo… proprio le persone che volete influenzare, i ministri e i funzionari delle ricche democrazie, smetteranno di ascoltarvi”. La campagna continuò nonostante questi ammonimenti. Ora, gli osservatori della questione del debito hanno predetto che progressi sostanziali per la cancellazione sono alla portata, forse addirittura per quest’estate. Sebbene i governanti del Gruppo dei Sette, o G7 (*), paesi ricchi industrializzati non siano riusciti a concludere un accordo sul debito a Washington, in aprile, essi continueranno il dibattito quando si incontreranno insieme per la loro riunione annuale il 6-8 luglio a Perthshire, in Scozia. Sul tavolo c’è un piano per concedere una riduzione multilaterale del debito fino al 100% per molti dei paesi poveri più pesantemente indebitati al mondo.
[(*) Il G7 include Canada, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Giappone e Stati Uniti. Dal 1998, anche il presidente russo partecipa con i capi di stato delle nazioni del G7 ai summit annuali, creando il G8. Tuttavia, dal momento che la Russia non è considerata una potenza economica di rilievo o un importante creditore, i ministri finanziari delle nazioni del G7 continuano a incontrarsi come gruppo distinto. Le decisioni sulla cancellazione del debito saranno prese dai paesi del G7, sebbene rappresentati russi saranno presenti ad incontri quali il summit di luglio in Scozia per discutere altri argomenti.]
Che la legittimità della cancellazione fino al 100% del debito sia ora ampiamente accettata rappresenta un drammatico capovolgimento nel dibattito sul debito. Molti hanno commentato in anni recenti che il movimento della globalizzazione ha vinto la disputa morale su commercio e sviluppo, ma che le sue posizioni non si sono tradotte in politica. Tuttavia, la questione del debito fornisce un chiaro esempio in cui una rete di attivisti internazionali ha influenzato il processo decisionale governativo e così facendo ha aperto possibilità reali per lo sviluppo umano.
Al tempo stesso, con il Segretario del Tesoro statunitense John Snow che presenta nuovi ostacoli al progresso della cancellazione totale e con difensori che discutono le difficoltà che le nazioni in via di sviluppo affronteranno anche in un’era successiva alla remissione del debito, una vittoria maturata in un lungo periodo porta con sé una serie di nuove sfide.
La creazione di un “ordine del giorno”
All’inizio degli anni ’90, la cancellazione del debito era ben lontana dall’agenda politica mainstream. Mentre nel Sud globale infuriava una discussione iniziata negli anni ’80 – che condannava una situazione di debito emergente in cui alcuni paesi impoveriti, specialmente quelli nell’Africa sub-sahariana, pagavano più in interessi alle nazioni capitaliste avanzate di quanto ricevessero da loro in aiuti – l’argomento attirava molto poco interesse nelle nazioni ricche. “C’era una consapevolezza quasi nulla” della questione del debito negli Stati Uniti a quel tempo, dice Neil Watkins, coordinatore nazionale di Jubilee USA. Quando un piccolo gruppo di attivisti dei movimenti sociali, insieme a governanti del mondo in via di sviluppo, cercarò di ottenere un’udienza sulla questione al Summit Sociale delle Nazioni Uniti di Copenhagen, nel 1995, gli Stati Uniti impedirono la discussione. Il Presidente Bill Clinton e il Primo Ministro britannico John Major alla fine evitarono del tutto di partecipare al summit.
Non molto dopo, tuttavia, il lavoro delle associazioni di base sull’argomento cominciò a dare frutti. La formazione della rete Jubilee nel 1997 mise insieme un ampio spettro di organizzazioni religiose, sindacali e non-governative in una campagna internazionale congiunta. Nel maggio 1998, Jubilee aiutò a mobilitare 50.000 sostenitori per protestare contro il summit G7/G8 a Birmingham, Inghilterra. Le proteste ripresero con pieno vigore al summit dell’anno successivo a Colonia, in Germania, dove altre 50.000 persone formarono una catena umana attraverso le strade della città per simboleggiare le “catene del debito”.
Nello stesso periodo, membri di congregazioni religiose interessati alla questione, in particolare, poterono assistere ad alcuni soddisfacenti sviluppi. Gli sforzi dei cattolici attirarono l’attenzione quando, nel 1996, i vescovi cattolici dell’Africa iniziarono a denunciare pubblicamente i pagamenti del debito fatti “a spese della fornitura di sanità, educazione di base e altri servizi sociali per i poveri dei nostri paesi.” I vescovi dell’America Latina vennero fuori con affermazioni simili. Nel novembre 1998, papa Giovanni Paolo II, che aveva precedentemente simpatizzato per la campagna, individuò la riduzione del debito come “una precondizione perché i paesi più poveri progrediscano nella loro lotta contro la povertà”. Chiedendo azioni immediate, affermò che “è il povero a pagare il prezzo di indecisioni e ritardi.” Altre istituzioni religiose di tutto il mondo si fecero avanti per appoggiare la campagna Jubilee. Solo negli Stati Uniti, esse includevano la Chiesa Episcopale, la Chiesa Evangelica Luterana di America, la Chiesa Mennonita, l’Unione delle Congregazioni Ebraiche di America, la Chiesa Presbiteriana e altri gruppi interreligiosi come la Inter-Religious Task Force dell’America Centrale, il Church World Service e l’Ecumenical Program in America Centrale e nei Caraibi. A questo punto, politici ed esperti non potevano più permettersi di ignorare la richiesta di cancellazione del debito. Ma alcuni partirono all’attacco. A seguito delle manifestazioni di Birmingham, Andreas Whittam Smith, un giornalista del London Independent, diede voce all’opinione diffusa delle elite definendo gli obiettivi della campagna Jubilee “lodevoli”, ma criticando la sua strategia politica come “mal congegnata”. Mettendo in guardia contro “accuse mostruose “, egli difese le laboriose negoziazioni sul debito che erano in corso alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale e accusò che l’azione politica della coalizione Jubilee sarebbe stata “inefficace… se non controproducente.”
Prime vittorie
In effetti, al crescere degli sforzi dei movimenti di base per mettere la questione in evidenza, il G7 rispose ad ogni passo espandendo con riluttanza le sue limitate proposte per la riduzione del debito. Nel 1996, i paesi che controllavano il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale introdussero il loro primo piano per i “Paesi poveri pesantemente indebitati” (HIPC), concepito per offrire a 42 delle nazioni povere più indebitate al mondo una certa riduzione dopo sei anni probatori.
Sfortunatamente, l’effettiva cancellazione del debito multilaterale prevedeva alti livelli di “condizionalità”. L’HIPC richiedeva che i paesi poveri implementassero i programmi di aggiustamenti strutturali consigliati dall’FMI, che risultavano spesso in tagli alle spese per l’assistenza sanitaria e i servizi sociali. Inoltre, con il procedere del piano HIPC, divenne presto chiaro che la riduzione del debito stava diventando davvero troppo lenta per aver qualsiasi effetto sostanziale.
Nel 1999, sotto una pressione crescente, l’FMI istituì l’HIPC-2. Questo piano accelerò il ritmo della riduzione, ma mantenne la cancellazione del debito condizionata agli aggiustamenti strutturali. Inoltre, le somme di debito che esso cancellava lasciavano ancora i paesi poveri sotto fardelli non gestibili. Per la fine del 2000, 22 paesi avevano ricevuto una qualche riduzione dalle iniziative dell’HIPC, tuttavia il programma aveva cancellato in media solo un terzo del debito di ogni paese – difficilmente si trattava di una soluzione adeguata alla crisi, specialmente per le nazioni impoverite che avevano già ampiamente ripagato i loro prestiti originari, ma dovevano ancora imponenti somme. Come spiegato dal rapporto del 2004 sull’Africa della Conferenza delle Nazioni Uniti sul Commercio e lo Sviluppo, “il continente ha ricevuto circa 540 miliardi di dollari in prestiti e ha ripagato circa 550 miliardi di dollari in capitali e interessi dal 1970 al 2002. Tuttavia, l’Africa è rimasta con un debito di 295 miliardi. Il rapporto concludeva che continuare i pagamenti di interessi costituiva “un trasferimento di risorse al contrario” dai paesi poveri a quelli ricchi.
Forse una vittoria più importante arrivò nel settembre 1999, quando il presidente Clinton rispose ad un’intensa attività di lobbying annunciando che gli Stati Uniti avrebbero cancellato il 100% dei debiti bilaterali a loro dovuti dalle nazioni HIPC. Due mesi dopo, la Gran Bretagna avanzò una piano simile per la cancellazione del debito bilaterale; altri paesi creditori, come Germania, Francia e Giappone seguirono l’esempio. Le azioni dei governi segnarono una pietra miliare decisiva.
Allo stesso tempo, in termini di dollari, il costo totale di questa remissione del debito bilaterale da parte degli Stati Uniti è stata stimata in 330 milioni di dollari, mentre le somme totali dei debiti dovuti dai paesi poveri alle istituzioni creditrici multilaterali, quali l’FMI e la Banca Mondiale, erano valutati in centinaia di miliardi.
Nel 2000, gli attivisti di Jubilee furono attivi anche nel far pressione sul Congresso perché approvasse la legislazione che richiedeva ai rappresentanti statunitensi della Banca Mondiale e dell’FMI di opporsi ad ogni progetto che imponesse tasse agli utenti finali per i servizi di base di sanità ed istruzione. A causa dell’influenza che gli Stati Uniti esercitano all’interno di queste istituzioni, questa misura diminuì fortemente l’utilizzo di tasse sugli utenti, specialmente nel campo dell’istruzione. Come Robert Weissman scrisse in un editoriale del Washington Post del settembre 2003, un milione e mezzo di bambini tanzanesi in più erano stati in grado di iniziare la scuola come risultato della vittoria del 2000.
Anche lo stesso HIPC, con tutti i suoi limiti, ha avuto un impatto importante. Dal momento che il programma ha comunque fornito una certa riduzione del debito, esso ha dato inizio all’istituzione di un track record di quello che la cancellazione potrebbe fare. I critici avevano regolarmente accusato (e alcuni continuano a credere) che i soldi della cancellazione del debito sarebbe stati mal gestiti e non sarebbero stati usati per diminuire la povertà. In effetti, l’HIPC ha dimostrato che la cancellazione potrebbe essere una forma molto efficace di aiuto estero, permettendo ai paesi in via di sviluppo di trattenere e utilizzare le loro stesse risorse. Per il 2004, l’HIPC aveva proposto riduzioni di qualche misura per 27 paesi. Un rapporto del 2004 della Banca Mondiale ha mostrato che questi paesi insieme hanno quasi raddoppiato le loro spese totali per la riduzione della povertà -incluso istruzione, sanità e acqua pulita- tra il 1999 e il 2004.
“L’ingiusto peso” dell’Iraq
Una svolta finale nella politica degli Stati Uniti si è avuta nel periodo successivo all’invasione dell’Iraq, quando l’amministrazione Bush si appellò alle nazioni creditrici affinché condonassero il debito dell’Iraq, stimato in 120 miliardi di dollari. I sostenitori navigati della cancellazione del debito sentirono inaspettatamente i loro argomenti in bocca al presidente. Nel dicembre del 2003, al momento di inviare l’ex Segretario di Stato James Baker in missione speciale per fare pressione sugli alleati per la cancellazione del debito dell’Iraq, George W. Bush sostenne che tale debito metteva in pericolo “le prospettive a lungo termine di salute politica e prosperità economica” del paese e che il mondo non doveva permettere che degli obblighi finanziari “pesassero ingiustamente su una nazione in guerra nel momento delle speranze e delle promesse”.
Per estensione, la posizione dell’amministrazione sul debito dell’Iraq ha schierato gli Stati Uniti ufficialmente in favore della riduzione del debito per un ampia schiera di paesi in difficoltà. Tuttavia anche prima di questo cambiamento, le richieste a favore della cancellazione erano diventate sempre più mainstream. Un esempio molto visibile della popolarità dell’argomento si è avuto con il tanto pubblicizzato tour dell’allora Segretario del tesoro Paul O’Neill nel maggio 2002 attraverso le nazioni africane colpite dal debito insieme a Bono, la star del rock diventata filantropa. Anche un gruppo di conservatori degni di nota, guidati dall’economista Allan Meltzer, ha difeso la ragionevolezza dal punto di vista economico della cancellazione del debito, sostenendo che la Banca Mondiale dovrebbe trarsi d’impaccio da questo ciclo infinito in cui non è possibile ripagare il debito e dunque concedere nuovi prestiti. La posizione di Meltzer ha avuto la sua influenza all’interno dell’amministrazione Bush.
Con niente di meno che il governo statunitense a sostegno, la legittimità morale della cancellazione del debito era stata quasi universalmente riconosciuta; quello che restava da fare era adeguare la politica. Gli osservatori nutrivano speranze che ciò sarebbe successo durante l’incontro dell’ottobre 2004 tra i ministri delle finanze del G7 a Washington. Tuttavia, in quell’occasione, i disaccordi sui dettagli di un piano per il debito impedirono di raggiungere qualcosa di concreto. I ministri del G7 si sono avvicinati ad un accordo nell’incontro di febbraio a Londra. Sulla scia del disastro dello tsunami in Asia, i paesi ricchi hanno diffuso una dichiarazione di accordo di principio per “la riduzione multilaterale del debito fino al 100%” per le 42 nazioni HIPC. La loro presa di posizione a sostegno della piena cancellazione ha segnato un’altra pietra miliare per il movimento Jubilee, ma ha lasciato molte domande pratiche senza risposta.
Il dibattito attuale all’interno del G7
Al momento, rimangono parecchi punti fondamentali di disaccordo tra gli Stati Uniti e i paesi europei, guidati dalla Gran Bretagna, su come un nuovo piano per il debito dovrebbe procedere. Questi argomenti saranno sul tappeto al summit del G7/G8 di luglio in Scozia.
Un primo argomento riguarda il numero di paesi che otterranno la cancellazione. La proposta britannica, pur teoricamente aperta a tutti i paesi HIPC, offrirebbe una riduzione immediata solo ai 15 paesi che hanno completato un programma obbligatorio di riforme economiche, insieme ad altri cinque o sei paesi non-HIPC che ricevono sostegno per la riduzione della povertà dalla Banca Mondiale. Il piano statunitense, sebbene meno concreto, concederebbe probabilmente la riduzione a 27 paesi HIPC, ma non a nazioni povere al di fuori della sfera dell’HIPC.
Infine, la questione forse più spinosa che i ministri delle finanze stanno ora discutendo concerne come il programma, qualunque sia la sua ampiezza, sarà finanziato. La Gran Bretagna ha proposto che la riduzione del debito sia finanziata principalmente attraverso una vendita di riserve auree dell’FMI. E’ ampiamente riconosciuto che le riserve sono sottovalutate e una semplice rivalutazione potrebbe permettere di concedere la riduzione in maniera facile e indolore. Ma la volontà politica richiesta per una mossa di questo genere non è necessariamente facile da ottenere. Un motivo per cui la Casa Bianca è contraria a questo approccio è che la legislazione attuale prevederebbe che essa ottenga l’autorizzazione del Congresso per tale azione, cosa che non è propensa a fare. Invece, la Casa Bianca sostiene che i fondi per la riduzione del debito dovrebbero provenire dai bilanci dell’FMI e della Banca Mondiale per le iniziative di riduzione della povertà. Il suo piano tenderebbe ad evitare ogni rilevante rivalutazione aurea che richiederesse l’approvazione del Congresso. I rappresentanti europei si oppongono a questa idea. Essi ritengono che un nuovo programma per il debito dovrebbe includere aiuti aggiuntivi per i paesi poveri e non semplicemente sostituire la riduzione del debito agli altri aiuti che i paesi ricevono ora. Per finanziare aiuti supplementari il piano britannico richiede contributi maggiori alla Banca Mondiale da parte dei suoi stati membri.
Le lamentele europee sulle proposte statunitensi di finanziamento hanno la loro radice in una più ampia opposizione all’unilateralismo statunitense. Nella politica estera economica così come nella spinta per il “cambio di regime” in Iraq, l’amministrazione Bush ha mostrato una propensione a scansare gli organismi internazionali e ad agire da sé. In contrasto con l’amministrazione Clinton, che faceva molto affidamento sulle Istituzioni Finanziare Internazionali (IFI) per mettere in pratica la propria agenda per il commercio e lo sviluppo, i funzionari di Bush sono per lo più orientati ad utilizzare pagamenti di aiuti diretti come incentivi affinché i paesi poveri si conformino ai desideri degli Stati Uniti e anche ad avviare negoziati commerciali bilaterali con paesi che essi considerano strategicamente importanti.
In questo contesto, le nazioni europee sono interessate a mantenere la Banca Mondiale e le altre istituzioni di Bretton Woods come limitazioni multilaterali alle azioni statunitensi. A proposito della riduzione del debito, sono preoccupati che il piano statunitense ridurrà il potere della Banca. Si oppongono ai suggerimenti proposti da Allan Meltzer, e sempre più portati avanti dalla Casa Bianca stessa, che la Banca Mondiale gradualmente elimini la concessione di prestiti a favore del rilascio di sovvenzioni. In mancanza di consistenti prestiti nel suo portfolio, la posizione della Banca come grande creditore – e quindi la sua influenza sulla politica dello sviluppo – risulterebbe significativamente ridotta.
Mentre i governi europei sono convinti che questa sarebbe una cattiva cosa, molti critici trasversalmente allo spettro politico non sarebbero d’accordo. Curiosamente, questo dibattito ha unito conservatori unilateralisti e oppositori progressisti di lunga data dell’FMI e della Banca Mondiale. Ognuno dei gruppi è favorevole alla diminuzione del potere degli IFI esistenti, sebbene per ragioni diverse.
Innalzando un nuovo ostacolo, il Segretario al Tesoro John Snow ha annunciato alla fine di aprile che gli Stati Uniti non sono disponibili al compromesso sulla questione delle vendite auree dell’FMI, eliminando questa opzione dal tavolo delle trattative. Questo ha portato ad un crescente scetticismo sulla possibilità che il G7 raggiunga un accordo sul debito in tempo per il loro incontro di luglio in Scozia e rappresenta un passo indietro rispetto ad affermazioni precedenti a sostegno di un’ampia riduzione nel prossimo futuro. Allo stesso tempo, un accordo sul debito della Banca Mondiale potrebbe ancora essere raggiunto; questo passo creerebbe un precedente di riferimento per una piena cancellazione.
Un movimento guarda avanti
“Mentre celebriamo la nostra vittoria, dovremmo ricordare che siamo stati esclusi”, ha scritto Watkins ai sostenitori di Jubilee USA dopo l’assenso del G7 alla riduzione del 100%. Durante la preparazione e subito dopo i colloqui di luglio, Jubilee e gli altri sostenitori della cancellazione del debito controlleranno da vicino i negoziati e spingeranno parecchie richieste chiave.
Prima di tutto, faranno pressione per assicurare che i piani adottati raggiungano davvero l’obiettivo del 100%. Le formule create negli incontri a venire determineranno se la piena cancellazione diventerà una realtà per molti paesi oppure se rimarrà retorica per tutti tranne alcuni dei debitori più poveri.
Secondo, i sostenitori continueranno a spingere affinché paesi non HIPC ottengano la cancellazione. Alcuni dei paesi molto poveri, come Nigeria, Sri Lanka, Bangladesh, Giamaica e Haiti, non sono inclusi nel processo HIPC. Alcuni paesi “da medio reddito”, come Brasile e Messico, hanno grandi strati di popolazione che vivono in povertà disperata e tuttavia sono troppo ricche per qualificarsi per la cancellazione del debito secondo le linee guida HIPC. Questi paesi richiedono un nuovo processo che permetta loro di utilizzare le proprie risorse per la riduzione della povertà e lo sviluppo umano piuttosto che per il pagamento degli interessi.
Molti dei debiti dovuti da questi paesi sono stai accumulati da dittatori o altri governanti corrotti;questi sono debiti “odiosi”. I promotori della campagna da tempo affermano che popoli che hanno rovesciato governi non democratici non dovrebbero essere gravati dai debiti accumulati dai governanti deposti. (Come sostenuto dal presidente Bush nel caso dell’Iraq, il futuro di un popolo “non dovrebbe essere ipotecato dall’enorme peso del debito accumulato per arricchire” un despota.) Al contrario, la comunità internazionale deve creare un meccanismo attraverso il quale i debiti possono essere giudicati illegittimi.
Terzo, gli attivisti richiederanno la fine della condizionalità neoliberale, e si attiveranno per far si che il piano implementato dal G7 non includa obblighi di aggiustamenti strutturali come quelli inclusi nelle iniziative HIPC. I promotori della campagna hanno giustamente espresso la preoccupazione che proposte quali quella britannica cancellano solo i debiti di paesi poveri che hanno completato il programma HIPC. In effetti, si continuerebbe a richiedere ai paesi poveri di sottomettersi alla ristrutturazione economica prima che venga concessa loro la riduzione.
Infine, altri sostenitori si stanno muovendo oltre il debito “storico” e stanno lavorando per far si che, in un’epoca post cancellazione, non vengano accumulati daccapo nuovi debiti. Nel 2004, l’FMI e la Banca Mondiale hanno introdotto un “infrastruttura per la sostenibilità del debito” per affrontare nuovi prestiti ai paesi in via di sviluppo. Le organizzazioni della società civile hanno salutato con favore la discussione della nuova iniziativa, ma contestano che la proposta attuale lascerebbe la “condizionalità” negativa ben al suo posto. Così come proposto, l’ “infrastruttura” darebbe alle istituzioni internazionali la responsabilità di premiare “politiche forti” – che nel gergo dell’FMI troppo spesso ha significato aggiustamenti strutturali e liberalizzazione del commercio. Dati gli scarsi precedenti di queste politiche nel produrre crescita in molti paesi in via di sviluppo, non è chiaro come perpetuarle dovrebbe prevenire una nuova crisi di indebitamento.
Questo dibattito dimostra, in definitiva, che il debito è solo un aspetto del sistema neo-liberale -meglio conosciuto negli Stati Uniti come “corporate globalization” – che negli ultimi 30 anni ha aumentato il divario tra paesi ricchi e i paesi del Sud globale. Anche se si realizzasse una riduzione definitiva del debito, la maggior parte dei paesi in via di sviluppo avrà comunque di fronte ardue barriere nell’esercitare una vera autodeterminazione e nel perseguire modelli economici che non sono ben visti dal Tesoro statunitense. O servendosi dell’FMI o approfittando in maniera diretta del loro potere come grandi donatori e partner commerciali, i paesi del G7 sono spesso stati sollecitati nel promuovere programmi di ristrutturazione economica simili a quelli imposti ai paesi HIPC – perfino tra paesi che non sono pesantemente indebitati.
Mentre il neoliberalismo gode di fama sempre peggiore, e mentre un numero maggiore di paesi sfugge ai vincoli del debito, un movimento di globalizzazione che ha attrarro molti nuovi sostenitori con la sua richiesta di cancellazione del debito avrà di fronte il compito di difendere vie economiche alternative che sfidino l’ortodossia di Washington. A questo proposito, la riduzione del debito non sarà un fine in sé, ma un modo di confrontarsi con i temi più generali che stanno modellando il corso dello sviluppo internazionale. Sfide a lungo termine non devono sminuire progressi storici, tuttavia. Se gli incontri del 2005 saranno all’altezza delle speranze di progresso, i promotori della campagna nel Sud globale e la loro ampia rete di alleati dovrebbero poter assaporare un’importante, seppure incompleta, vittoria.