Alla fine del 1930, l’India stava sperimentando una frattura a un livello mai visto in circa settant’anni – e stava testimoniando un livello di partecipazione al movimento sociale che gli organizzatori che sfidano i regimi non democratici solitamente si sognano di raggiungere.
Una campagna di non cooperazione di massa contro la dominazione imperiale si era diffusa in tutto il Paese, cominciata all’inizio dell’anno, quando Mohandas Gandhi e circa 80 seguaci della sua comunità religiosa intrapresero una Marcia del Sale, per protestare contro il monopolio britannico sul minerale. Prima della fine della campagna, più di 60.000 persone sarebbero state arrestate, di cui ben 29.000 in una volta sola avrebbero orgogliosamente riempito le prigioni. Fra le loro file, c’erano molte delle più importanti figure dell’Indian National Congress (Congresso Nazionale Indiano), compresi alcuni politici che un tempo erano stati restii ad appoggiare l’azione nonviolenta diretta.
Non solo gli Indiani producevano illegalmente il sale e organizzavano blocchi ai siti governativi di lavorazione del sale, ma, con il crescere degli sforzi, la campagna adottò un ampio insieme di tattiche aggiuntive. Centinaia di migliaia di abitanti dei villaggi si rifiutarono di pagare le tasse fondiarie e sul legname. Dipendenti pubblici si dimisero dagli uffici governativi; in un distretto del Gujarat ben un terzo dei dipendenti locali dichiarò che avrebbe lasciato il posto. Gli attivisti organizzarono e mantennero un boicottaggio delle importazioni di prodotti britannici in India. Nelle parole di uno storico, i principali centri tessili, comprese Calcutta, Bhagalpur, Delhi, Amritsar e Bombay, “si fermarono per una parte o per quasi tutto il 1930, a causa di [scioperi], picchetti e serrate padronali”.
Osservatori vicini e lontani potevano intuire la grandezza storica del momento. In Inghilterra, Winston Churchill, allora deputato conservatore, attaccò furiosamente quella che riteneva l’incapacità del suo governo nel difendere l’impero nei modi appropriati. Similmente angosciati erano i funzionari britannici in India. Sir Frederick Sykes, governatore di Bombay, nel maggio 1930 scrisse ai suoi superiori: “È ora necessario riconoscere francamente che ci troviamo a fronteggiare una ribellione più o meno aperta … sostenuta, attivamente o passivamente, da gran parte della popolazione. Per un motivo o per l’altro, non abbiamo praticamente amici attivi in modo aperto”. Un comandante di polizia descrisse il suo distretto come “virtualmente in stato di guerra per gran parte dell’anno”.
Com’era arrivato fino a questo punto il movimento indipendentista indiano? Che tipo di organizzazione aveva permesso il verificarsi di questa sollevazione? Quale strategia aveva condotto a una disobbedienza tanto diffusa e coordinata?
In verità, non si trattò di una sola strategia, ma della combinazione di diverse strategie. E gran parte del genio politico di Mohandas Gandhi consistette proprio nella sua capacità di tenere insieme queste strategie disparate.
Per chi oggi cerca di produrre un cambiamento, il panorama dei movimenti sociali può apparire frammentato e confuso. Rispondendo alla miriade di sfide dell’oppressione razziale, dello sfruttamento economico e della catastrofe ambientale, i vari gruppi adottano strategie organizzative molto diverse. Alcuni lavorano per creare mobilitazioni di massa – azioni come la Marcia delle Donne, Occupy Wall Street, o grandi manifestazioni per i diritti degli immigrati – che attirano certamente l’attenzione del pubblico, ma che possono svanire velocemente. Altri si concentrano sul lavoro lento e costante di costruire istituzioni di lunga durata, come sindacati o partiti politici. Altri gruppi ancora favoriscono comunità di contro-cultura e istituzioni alternative a quelle tradizionali. Spesso, ci sono pochi contatti fra gruppi che adottano strategie diverse – e uno scarso senso di un obiettivo comune.
Tuttavia, questi vari sforzi non devono considerarsi in contrasto l’uno con l’altro. I movimenti funzionano al meglio quando riconoscono i diversi ruoli e trovano modi di usare costruttivamente i contributi di ognuno. Anzi, ciò può essere una chiave di successo.
Anche se la sua attività contro il dominio britannico in India cominciò un secolo fa, Gandhi incontrò molte delle stesse divisioni che continuiamo a veder riaffiorare nella politica moderna. Perciò, la sua capacità di favorire e nutrire un ricco ecosistema del movimento sociale – in cui ognuno dei diversi approcci al cambiamento aiutò a far progredire lo sforzo anti-imperialista generale – offre lezioni affascinanti per il momento presente.
L’unione di tradizioni organizzative
Gandhi è uno dei personaggi pubblici più riveriti del 20° secolo. Eppure, nonostante la sua grande notorietà, le sue effettive strategie per promuovere il cambiamento sociale in India sono molto meno conosciute. Alcuni lo considerano un personaggio spirituale, che ha esercitato la sua guida solo tramite la persuasione morale. Altri hanno sentito parlare dei più famosi atti di disubbidienza civile portati avanti da lui e dai suoi seguaci, proteste che sono state ampiamente celebrate e rappresentate nei film hollywoodiani. Altri ancora lo ritraggono come un personaggio politico, seduto al tavolo dei negoziati di fronte a funzionari dell’impero britannico.
Tutte queste idee riflettono aspetti della vita politica di Gandhi. Tuttavia, ciascun ritratto da solo è incompleto.
Il metodo gandhiano per portare avanti la trasformazione sociale era più interessante di quanto uno qualsiasi di questi aspetti possa suggerire. Ciò che lo rende una figura così unica nella storia dei movimenti sociali è la sua capacità di mettere insieme diversi tipi di organizzazione. Gandhi era in grado di coltivare ciò che può essere chiamata una sana “ecologia del cambiamento”, in cui gruppi con diverse teorie e prassi per il cambiamento della società potevano espandere le capacità del movimento nel suo insieme.
In particolare, egli unì tre filoni di attività – filoni che sono paralleli a quelli presenti oggi negli Stati Uniti e altrove: primo, mobilitazioni su larga scala, che impiegavano l’azione nonviolenta diretta (ciò che Gandhi chiamava satyagraha). Secondo, sforzi per costruire una struttura organizzativa duratura (il Congresso Nazionale Indiano), che potesse influenzare le istituzioni dominanti. Terzo, la creazione di alternative al di fuori della tradizione (come gli ashram gandhiani e il “programma costruttivo”).
Sebbene questi tre differenti metodi per favorire il progresso – protesta di massa, organizzazione di strutture e creazione di alternative – siano stati presenti in molti altri paesi in vari periodi di tempo, è raro che tutti e tre collaborino al servizio di un movimento sociale unificato. Gandhi funse da ponte fra questi tre diversi orientamenti e fornì un modello eccezionale di quanto beneficio possano trarre i movimenti quando diverse strategie operano insieme.
Apprezzare il raro talento di Gandhi nel collegare questi mondi non significa metterlo su un piedistallo. Anche se può sembrare una sorpresa per coloro che lo considerano un santo indiscusso, Gandhi fu sempre invischiato in controversie. La fondatezza delle sue raccomandazioni religiose e sociali, così come il merito delle sue innumerevoli decisioni strategiche, furono oggetto di un costante dibattito anche durante la sua vita – e le discussioni sono continuate dopo la sua morte nel 1948. Eppure, anche considerando le varie contraddizioni e dispute che accompagnarono la carriera di Gandhi, possiamo trarre validi insegnamenti dalla crescita del movimento indipendentista indiano del suo tempo e dal suo successo nell’innalzare a livelli storici le agitazioni anti-imperialiste conto il dominio britannico.
Satyagraha: l’innesco della protesta di massa
Il primo tipo di attività promosso da Gandhi è forse il più noto: egli divenne famoso per la creazione di campagne di massa dirompenti, che avrebbero attratto molte migliaia di partecipanti, si sarebbero diffuse su vaste aree e avrebbero posto con forza una questione al centro della discussione politica. Gandhi chiamava questo metodo di mobilitazione di massa satyagraha, o l’applicazione della “forza della verità”. Durante la sua vita, Gandhi guidò più di mezza dozzina di campagne principali di satyagraha. Intraprese in un periodo di quarant’anni, esse cominciarono con i primi esperimenti di disobbedienza civile e non cooperazione in Sud Africa e culminarono in iniziative che interessarono tutta l’India.
Le prime mobilitazioni in India consistettero in campagne regionali di scioperi e proteste di lavoratori agricoli nel Bihar, nel 1917, e nel Gujarat, nel 1918. In quest’ultimo caso, i contadini si rifiutarono collettivamente di pagare le imposte fondiarie, anche di fronte ad arresti diffusi, percosse e confische di terreni. Dopo cinque mesi, il governo cedette e restituì le terre, rilasciò i prigionieri e diminuì le tasse.
Mentre queste prime iniziative erano limitate a un ambito locale, i satyagraha crebbero in campagne dirompenti, con una portata molto più ampia. Oggi, come ai tempi di Gandhi, le proteste di massa, quando guadagnano i titoli dei giornali e mandano migliaia di persone nelle strade, sono descritte regolarmente come sollevamenti “non pianificati”, “emotivi” e “spontanei”. Molti osservatori non pensano assolutamente che queste agitazioni possano essere pianificate, ma che esse siano, piuttosto, il prodotto dello zeitgeist del momento storico. Gandhi aveva un punto di vista diverso. Egli sosteneva che momenti di attività tempestosa potevano essere progettati da abili professionisti. Uno dei primi, influenti studi sulla resistenza civile gandhiana notò che “la satyagraha, come azione socio-politica applicata, richiede un programma generale di pianificazione, preparazione ed esecuzione mirata”. In verità, il perfezionamento che Gandhi fece di quest’arte – l’uso strategico delle sollevazioni disarmate – fu uno dei suoi maggiori contributi alla storia del movimento sociale.
La prima satyagraha di Gandhi a livello nazionale fu l’iniziativa del 1920-22 nota come Movimento di non-cooperazione. Questa campagna si svolse attraverso una serie di azioni in scala crescente. Lo storico Perry Anderson descrive quattro livelli di attività dirompenti: “Primo, la rinuncia a tutti i titoli e le onorificenze conferiti dai britannici; poi, le dimissioni dagli impieghi pubblici; quindi, le dimissioni dalla polizia e dall’esercito; infine, il rifiuto di pagare le tasse”. Dopo l’annuncio di questa strategia da parte di Gandhi nell’agosto 1920, l’iniziativa prese piede velocemente. “La campagna elettrizzò il Paese”, nota Anderson, “coinvolgendo classi sociali e regioni fino allora non toccate dall’agitazione nazionalista”. La storica Judith Brown aggiunge: “Uomini e donne, giovani e vecchi, cittadini e campagnoli potevano scegliere l’azione adatta a loro, da partecipare a una riunione a chiudere un negozio, stare lontani dalle lezioni o persuadere i negozianti locali a non vendere più stoffe e liquori stranieri”.
L’impatto fu percepito in un’area molto estesa. Il poeta hindi Rambriksha Benipuri fece questa famosa osservazione: “Da quando sono consapevole, sono stato testimone di vari movimenti; tuttavia, posso affermare che nessun altro movimento ha rivoltato le fondamenta della società indiana quanto il Movimento di non-cooperazione”.
All’inizio del 1922, l’amministrazione britannica era stata danneggiata ma non bloccata; i leader della non-cooperazione decisero che il movimento era pronto per iniziare uno sciopero fiscale. Tuttavia, dopo soli quattro giorni dall’annuncio di questa intensificazione, Gandhi prese la controversa decisione di annullare completamente il Movimento di non-cooperazione, in seguito ad uno scoppio di violenza nella città settentrionale di Chauri Chaura. In seguito, Gandhi trascorse due anni in una prigione britannica, per promozione di attività sediziose. Mentre la saggezza strategica della decisione di sospendere la campagna fu vivacemente dibattuta fra sostenitori e detrattori, è fuori questione che l’iniziativa tradusse con successo i principi della satyagraha dalle sue applicazioni regionali in Bihar e Gujarat in un movimento panindiano. In tal modo, preparò il terreno per un’ondata di resistenza civile di massa ancor più larga: la satyagraha del sale.
Dal marzo 1930, la satyagraha del sale cominciò con una marcia di 200 miglia da parte di Gandhi e dei suoi seguaci fino alla città costiera di Dandi, e da lì si espanse velocemente. “La marcia ebbe una grande notorietà in tutta l’India”, scrive Brown, e presto altri milioni di persone si unirono alla satyagraha. Anche se le autorità britanniche repressero brutalmente le proteste e arrestarono decine di migliaia di persone in tutta la nazione, la resistenza continuò mese dopo mese. Riflettendo sull’ampiezza della mobilitazione, il leader nazionalista e futuro primo ministro indiano Jawaharlal Nehru affermò in seguito: “Sembrava che una primavera fosse sbocciata improvvisamente”.
Dopo circa un anno di proteste, sentendo che l’impulso della campagna stava diminuendo, Gandhi negoziò un accordo con il viceré britannico, Lord Irwin. Mentre chi era addentro alla politica mise in discussione il valore dei vantaggi di breve termine garantiti dal compromesso, il pubblico indiano riconobbe che la satyagraha del sale aveva inferto un colpo notevole al prestigio britannico in India – un sentimento a cui fecero eco a Londra gli imperialisti più duri, che considerarono l’accordo come un grossolano errore, fatale per l’impero.
La realizzazione di una struttura di opposizione: il Congresso Nazionale Indiano
Oltre a guidare imponenti proteste di massa, Gandhi contribuì anche a realizzare un’organizzazione stabile, di lunga durata, che potesse servire come entità istituzionale per rappresentare il movimento indipendentista. Quest’organizzazione fu il Congresso Nazionale Indiano. Fondato negli anni ’80 dell’Ottocento, lo scopo originale del Congresso era favorire una maggiore influenza delle élite indiane nel governo controllato dai britannici. Dopo il suo ritorno in India nel 1915, Gandhi lavorò per cambiare la composizione e la prospettiva dell’organizzazione; nei decenni seguenti, il Congresso s’ingrandì costantemente e divenne sempre più antagonista nei confronti dei britannici. Nel 1930, l’organizzazione sosteneva la causa della piena indipendenza nazionale e della cacciata dell’Impero Anglo-Indiano. Col tempo, sarebbe diventato il partito di governo della più grande democrazia mondiale. Il 15 agosto 1947, Nehru, uno dei principali luogotenenti di Gandhi, assunse per primo la carica di primo ministro dell’India, incarnando la spettacolare trasformazione del Congresso da un piccolo gruppo dissidente a un grande partito che teneva le redini del potere statale.
La crescita graduale del Congresso nel corso degli anni fu simile alle organizzazioni strutturate in altre parti del mondo, come la formazione dei partiti socialdemocratici in Europa. Nel contesto americano, possiamo vedere esempi di tali organizzazioni strutturate nella formazione dei principali sindacati e nel modello di Saul Alinsky per la costruzione di organizzazioni fondate sulla comunità, che nel tempo possono far leva sulla forza dei loro membri. Con riferimento al movimento americano per i diritti civili, le campagne gandhiane di satyagraha possono essere paragonate a iniziative di alto profilo, come le Freedom Rides (Corse per la Libertà) o la campagna di Birmingham, mentre il Congresso Nazionale Indiano ha più cose in comune con organizzazioni con membri stabili, come il NAACP (National Association for the Advancement of Colored People – Associazione Nazionale per il Progresso della Gente di Colore).
Il coinvolgimento di Gandhi nella guida del Congresso Nazionale Indiano fu episodico; alcune volte egli si trasse in disparte per lunghi periodi per concentrarsi su altri aspetti del suo lavoro. Assunse cariche ufficiali solo per periodi relativamente brevi, e arrivò al punto di rinunciare ad essere membro del partito per un certo tempo, a partire dal 1934, frustrato per le schermaglie politiche interne. Eppure, qualsiasi fosse il suo ruolo formale in un dato momento, Gandhi fu la principale figura rappresentativa del Congresso per quasi trent’anni; i suoi interventi giocarono un ruolo decisivo nel plasmare lo sviluppo dell’organizzazione. Anche i critici di Gandhi, come Perry Anderson, riconoscono che Gandhi, nelle parole dello storico, “fu un organizzatore e raccoglitore di fondi di prim’ordine, diligente, efficiente, meticoloso; egli ricostruì il Congresso da cima a fondo, dotandolo di un esecutivo permanente a livello nazionale, unità locali a livello provinciale, basi locali a livello distrettuale e delegati in proporzione alla popolazione, per non parlare di fondi consistenti”.
Rajendra Prasad, per lungo tempo uno dei leader del partito, ricordò, alcuni decenni più tardi, che, prima del coinvolgimento di Gandhi, “il Congresso aveva risvegliato e organizzato la coscienza nazionale fino a un certo punto; ma il risveglio era largamente confinato alle classi medie con istruzione inglese e non era penetrato nelle masse”. La storica Judith Brown è più franca: il Congresso del 1915, scrive, era poco più di una “zoppicante associazione di discussione”, largamente confinata alle principali aree urbane e con scarse infrastrutture di base; nel decennio seguente, il talento organizzativo di Gandhi aiutò a trasformarlo in una “formidabile organizzazione e forza di lotta nazionale”.
Fra le altre attività, Gandhi fu l’autore di una nuova costituzione organizzativa, che stabilì una struttura di comando del Congresso più rappresentativa e sostituì l’inglese con l’hindi come lingua ufficiale del partito. Ridusse anche considerevolmente le quote di iscrizione, cosicché, come scrisse nel 1939 il commediografo, scrittore e osservatore diretto Krishnalal Shridharani, “il povero aveva le stesse opportunità di iscriversi del ricco”. Gandhi viaggiò senza sosta in diverse regioni per coltivare relazioni, consolidare il sostegno al suo programma, e costruire l’infrastruttura locale del partito. Nel 1922, c’erano 213 Comitati Distrettuali del Congresso, che coprivano una gran parte del Paese sotto la diretta amministrazione britannica. Shridharani stimò che nel 1930 ci fosse un ufficio del Congresso in un villaggio su tre. L’eccezionale capacità di Gandhi di raccogliere fondi aiutò a sostenere tale crescita.
In un’India eterogenea, ricca di divisioni di classe, di casta, religiose e geografiche, la maggior parte delle organizzazioni rappresentava un elettorato limitato e settario. Il Congresso fece progressi significativi nella sfida a questa tendenza ed unì popolazioni rurali e urbane, istruite e non istruite e si estese su grandi distese geografiche. Mantenere la partecipazione e consolidare l’infrastruttura locale del partito furono sfide continue, e le speranze di Gandhi di portare insieme indù e musulmani incontrarono un successo molto limitato. Nondimeno, scrive Judith Brown, all’inizio degli anni ’20 il Congresso si era affermato come “l’unica organizzazione con qualche realistica pretesa di essere il portavoce di una nazione”.
Vivere l’alternativa: il programma costruttivo
In addition to the mass satyagraha campaigns and his structure-based organizing through the Indian National Congress, Gandhi was also active in the creation of alternatives, or what has sometimes been called “prefigurative politics.” This aspect of his work is evident in statements from Gandhi including his contention that “The best propaganda is not pamphleteering, but for each one of us to try to live the life we would have the world live.”
Oltre che nelle campagne di satyagraha di massa e nell’organizzazione della struttura del Congresso Nazionale Indiano, Gandhi fu attivo anche nella creazione di alternative, o in ciò che talvolta è stata chiamata “politica anticipatrice”. Questo aspetto del suo lavoro è evidente in alcune dichiarazioni, compresa la sua opinione che “la migliore propaganda non è scrivere pamphlet, ma, per ciascuno di noi, provare a vivere la vita che vorremmo che il mondo vivesse”.
Per Gandhi, l’idea di un’India indipendente era più di un obiettivo politico; essa implicava il cambiamento dello stile di vita di ognuno. Il suo anti-imperialismo non comportava semplicemente che le élite indiane avrebbero rilevato il governo nazionale dai britannici. Esso comprendeva anche il rifiuto delle concezioni occidentali di civiltà e modernizzazione, alle quali egli contrapponeva una visione di una rinvigorita vita di villaggio indiano. Egli considerava i suoi sforzi di costruire comunità alternative e istituzioni di contro-cultura come una parte essenziale dell’azione generale verso swaraj, la libertà. Lo storico Dennis Dalton scrive che, mentre alcuni politici del Congresso più concentrati sugli aspetti pratici intendevano swaraj in un senso restrittivo, “Gandhi interpretava la parola libertà in due sensi diversi: la ‘libertà esterna’ dell’indipendenza politica, e la ‘libertà interna’”, che richiedeva un processo di decolonizzazione più personale e il perseguimento della trasformazione sociale al di fuori della politica formale.
Perseguire la swaraj, quindi, non era solo una questione di lottare per riforme legali. Piuttosto, Gandhi dedicò molto del suo tempo a lavorare su ciò che chiamava il “programma costruttivo”. Nelle parole dell’autore e teorico Gene Sharp, il programma costruttivo era un tentativo di “iniziare a costruire un nuovo ordine sociale anche mentre il vecchio esiste ancora”, con cooperative decentralizzate, “funzionanti indipendentemente dallo stato e dalle altre istituzioni del vecchio ordine”. La visione gandhiana del programma costruttivo comprendeva molte attività che si sovrapponevano: egli propugnava la filatura di stoffe tessute a mano (o khadi), l’espansione di industrie di villaggio, come la fabbricazione di sapone e carta, e una sanità pubblica e una pulizia personale migliorate. Insisteva sulla semplicità dello stile di vita, su un’istruzione migliore, su pratiche culturali che rifiutassero le divisioni consolidate fra indù e musulmani, e sulla fine della ”intoccabilità”.
Come risultato di questi sforzi, molti, al tempo di Gandhi, lo consideravano più un sostenitore di uno stile di vita basato su principi religiosi che un leader politico. Nei suoi scritti pubblicati, egli spesso si interessava di questioni dietetiche e di igiene, preoccupandosi di argomenti come il miglior modo di costruire uno spazzolino da denti economico, efficace e riusabile a partire da setole comunemente disponibili. Senza dubbio, queste preoccupazioni erano ben lontane da quelle degli organizzatori del Congresso, che si concentravano su questioni costituzionali, su come assicurare l’autogoverno dell’India.
La visione gandhiana del programma costruttivo fu messa in pratica pienamente nei suoi ashram, o comunità d’intenti. Nel corso della sua vita, Gandhi fondò e visse in un certo numero di ritiri a orientamento spirituale, come l’Ashram Sabarmati nel Gujarat (dove visse fra il 1917 e il 1930) e l’Ashram Sevagram nel Maharashtra (dove visse fra il 1936 e il 1948). In ogni caso, centinaia di seguaci devoti vivevano in comunità con Gandhi e i suoi luogotenenti, aderendo a uno stretto regime di disciplina personale, preghiera e servizio pubblico.
Gli storici Judith Brown e Anthony Parel scrivono che Gandhi considerava gli ashram come la sua “migliore opera e [il posto] dove egli cercava di elaborare gli elementi centrali della sua visione spirituale di una buona vita umana alla ricerca della Verità”. Brown scrive altrove che, per Gandhi, gli ashram “erano simili a laboratori, dove egli poteva tentare di risolvere in un microcosmo problemi che interessavano l’India su una scala molto più ampia”. Senza considerare il successo o il fallimento delle questioni sollevate dal Congresso nei confronti dei britannici, i membri degli ashram vivevano la loro visione della swaraj in comunità che riflettevano gli ideali di autonomia locale e governo decentralizzato.
I membri degli ashram vivevano in povertà volontaria. Fra gli altri aspetti della vita comunitaria, essi possedevano pochi effetti personali, consumavano semplici pasti vegetariani, dormivano in residenze collettive, prendevano voti di astinenza sessuale ed eseguivano lavori manuali. Condividevano le faccende domestiche, anche se servili, senza considerare la classe sociale o la posizione di casta. Inoltre, si dedicavano a servire i villaggi vicini con aiuti medici, lavoro igienico, insegnamento della filatura manuale e di altre pratiche artigianali, ed educazione contro l’intoccabilità.
Gli ashram servirono anche come una base dalla quale Gandhi e i suoi seguaci svilupparono una più ampia rete di volontari politici e operatori sociali. Uno dei primi cronisti, Shridharani, affermò nel 1939 che questa schiera dedicata di volontari funse da “nucleo della rigenerazione economica e spirituale delle campagne indiane”. Il programma costruttivo si estese oltre gli ashram anche in altri modi. Ad esempio, l’Associazione Pan-Indiana dei Filatori (All-India Spinners’ Association), che era dedicata alla filatura della stoffa khadi e che dava lavoro fuori stagione ai contadini indiani, era attiva in circa 15.000 villaggi e, nel 1942, dava lavoro a più di 350.000 filatori e tessitori. Gandhi si rivolgeva agli Indiani in tutto il Paese, affinché boicottassero tutte le stoffe importate e adottassero la filatura come metodo di non cooperazione con l’industria britannica. Nelle parole dello scrittore Ved Mehta, egli fece diventare “il ‘filatoio’ sinonimo di indipendenza economica e rivoluzione nonviolenta”.
Verso un sano ecosistema del movimento
I tre diversi approcci al cambiamento sociale, che compaiono nelle varie attività di Gandhi – l’uso della protesta di massa, l’organizzazione strutturata e la creazione di alternative – non sono peculiari della lotta per l’indipendenza dell’India. Al contrario, essi compaiono in molti e diversi movimenti sociali, in vari continenti e periodi storici. Ma, siccome queste diverse tradizioni organizzative sono fondate su differenti teorie del cambiamento, esse si trovano spesso in conflitto l’una con l’altra.
Si possono trovare molti esempi di queste tensioni. Un detto ben conosciuto, emerso dalla tradizione di Saul Alinsky di organizzazione delle comunità, era: “Fondate organizzazioni, non movimenti”. In questo caso, il sospetto verso i “movimenti” rifletteva lo scetticismo verso le mobilitazioni di massa, che sembravano esplodere improvvisamente sulla scena politica, ma che svanivano altrettanto rapidamente. Analogamente, nel movimento degli anni ’60 per i diritti civili, l’attrito fra gli “organizzatori” e i “mobilitatori” causò roventi dibattiti interni fra gruppi come lo Student Nonviolent Coordinating Committee (Comitato di Coordinamento Nonviolento degli Studenti), o SNCC, e la Southern Christian Leadership Conference (Congresso dei Leader Cristiani degli Stati del Sud), o SCLC, di Martin Luther King Jr.
Mentre la mobilitazione di massa e l’organizzazione strutturata sono spesso in contrasto, entrambi gli approcci possono trovarsi in tensione con gruppi focalizzati sul “vivere l’alternativa”. Gli organizzatori, che cercano di contestare direttamente il potere del capitale o dello stato, hanno spesso un atteggiamento sprezzante nei confronti degli attivisti che sono più interessati a creare comunità di contro-cultura, che aggirano le istituzioni dominanti. Il sociologo Wini Breines argomentò che, nel contesto della New Left (Nuova Sinistra) degli anni ’60, gli attivisti che perseguirono una politica innovatrice “tentarono di sviluppare i semi della liberazione e la nuova società … fondata sulle contro-istituzioni”. Breines mette in contrasto quest’orientamento con quello degli organizzatori che abbracciarono politiche strategiche. Queste politiche comprendevano in genere diversi obiettivi e prassi, orientati alla costruzione di un potere “in modo da ottenere cambiamenti strutturali nell’ordine politico, sociale ed economico [esistente]”. Sebbene i due impulsi fossero entrambi presenti nella New Left, la coesistenza non fu facile. Come risultato dei diversi metodi di cambiamento, i “politici” (che perseguivano politiche strategiche) e i membri della “controcultura” (che si concentravano su attività innovatrici) alcune volte si ritrovarono con poco in comune fra loro.
Tali conflitti continuano a emergere oggi nei disaccordi fra gli attivisti che cercano di influenzare la politica tradizionale e quelli che cercano di costruire spazi autonomi al di fuori di essa. Quest’attrito esisteva anche nel movimento indipendentista indiano. In verità, lo sfaccettato ecosistema di movimenti fatto crescere da Gandhi poteva essere sostenibile solo per un periodo limitato. Dopo che i britannici cedettero il potere sul subcontinente, il movimento si frantumò in fazioni disparate e rivali.
Eppure, anche se può essere difficile che persone con differenti teorie del cambiamento lavorino insieme, non è impossibile superare le tensioni. Al suo culmine, il movimento indipendentista indiano creò attività e mobilitazione popolari a livelli mai visti altrove e fornì un esempio di come organizzatori con diversi orientamenti di lavoro possano complementarsi potentemente gli uni con gli altri. Grazie al suo impegno personale in ciascuno di questi tre metodi – e alla sua capacità di esprimere una loro visione come un tutt’uno – Gandhi aiutò a creare un’identità comune del movimento nazionalista. In una fiorente ecologia del cambiamento, ogni branca del movimento poteva svolgere un ruolo importante nel portare avanti un programma di trasformazione.
Un ecologia di mutuo sostegno
L’idea che ogni branca avrebbe beneficiato dai contributi delle altre fu critica fra i nazionalisti indiani per una sana ecologia del movimento. Questi benefici assunsero forme tangibili.
Come prima cosa, le parti del movimento concentrate sulle alternative ricevettero una grande spinta dalle altre branche del movimento – cioè dall’associazione con il Congresso e con le campagne di satyagraha. A causa di quest’associazione, le istanze contro-culturali divennero la norma nel movimento nel suo complesso. Nei periodi di mobilitazione di massa, agli aderenti al movimento non si chiedeva solo di boicottare le merci britanniche o le istituzioni legali; essi erano anche sollecitati ad astenersi dai liquori, a praticare la filatura e a sostenere i principi di unità della comunità. Anche se queste attività non avevano direttamente a che fare con la cacciata dei britannici, quanto piuttosto col progettare una visione alternativa della società indiana, esse furono sostanzialmente integrate nella cultura del movimento. Inoltre, le satyagraha di massa aumentarono molto l’interesse verso gli ashram e l’Associazione Pan-Indiana dei Filatori.
Anche se il Congresso Nazionale Indiano era più concentrato sull’ottenere l’indipendenza dai britannici piuttosto che sul realizzare istituzioni alternative a livello di villaggio, i membri del Congresso furono influenzati dal più ampio ecosistema del movimento sociale e adottarono un certo numero di pratiche contro-culturali. Come scrive Brown, “la stoffa filata a mano, che Gandhi salutava come il simbolo di una società della swaraj, divenne l’uniforme virtuale dei membri del Congresso, che nella generazione precedente si vantavano della loro eleganza sartoriale semi-occidentale”. Questo simbolo era così importante che il filatoio fu inserito nella “bandiera swaraj” ufficiale del partito del Congresso. Ancora oggi, la bandiera nazionale indiana deve essere fatta, per legge, di stoffa khadi.
In secondo luogo, le campagne di satyagraha di mobilitazione di massa trassero benefici dalle altre branche del movimento. Come il programma costruttivo e gli ashram furono avvantaggiati dagli altri tipi di organizzazione, così il successo delle proteste di massa periodiche dovette molto all’attività di più lungo termine. L’annuncio di una nuova satyagraha era come una dichiarazione di guerra. Come in guerra, le risorse, l’energia e l’attenzione della popolazione erano dirette verso la mobilitazione d’emergenza. Ciò significava attivare sia le comunità contro-culturali sia le reti del Congresso Nazionale Indiano al servizio della disobbedienza di massa.
I volontari degli ashram erano fra i partecipanti più impegnati nella disobbedienza nonviolenta. “Quando arrivava la chiamata a un’azione diretta contro il governo” spiegò Shridharani, gli ashram erano “trasformati in campi di partecipanti alla satyagraha, in cui l’energia delle persone era controllata e guidata in canali nonviolenti”. Il gruppo iniziale che s’incamminò con Gandhi nella Marcia del Sale era composto di membri della sua comunità d’intenti. In interviste con lo storico Dennis Dalton, ex residenti degli ashram ricordarono che, nella loro formazione nell’ashram, erano stati ben preparati ai requisiti fisici ed emotivi della lunga marcia, per non parlare dei successivi imprigionamenti e delle percosse che avrebbero dovuto subire mentre erano nelle mani delle autorità. Anche i membri dell’Associazione Pan-Indiana dei Filatori erano partecipanti affidabili quando era annunciata una satyagraha.
Le satyagraha nazionali erano annunciate come programmi ufficiali del Congresso ed erano fiancheggiate dalle risorse organizzative e dalla legittimazione del partito. Singoli membri del Congresso misero in gioco la propria reputazione partecipando alle campagne. Come scrive Judith Brown, “anche notabili indiani rispettosi della legge come Motilal Nehru”, uno stimato leader del partito e padre del futuro primo ministro, “andarono [in prigione] come se fosse un onore, anche se prima del 1921 lo avrebbero considerato come una disgrazia vergognosa”.
Terzo e ultimo punto, anche gli organizzatori della struttura del Congresso Nazionale Indiano trassero benefici dalle altre branche del movimento. Da parte loro, i politici del Congresso accettarono di sostenere la protesta di massa (le campagne di satyagraha) e la creazione di alternative (il programma costruttivo) non per un impegno astratto verso questi metodi, ma a causa degli evidenti guadagni ottenuti dalla loro organizzazione. I periodi di mobilitazione di massa e di disobbedienza civile consentirono al Congresso di estendere la sua influenza sulla popolazione e la sua infrastruttura di base, mentre ondate di nuove persone entravano nell’attività politica. In uno studio del 1966, Gopal Krishna, del Centro per lo Studio delle Società in via di Sviluppo di Nuova Delhi, riferì che la campagna di non cooperazione del 1920-1922 coincise con una “crescita spettacolare dell’organizzazione del Congresso” e che in questo periodo le iscrizioni di gruppo registrate “crebbero enormemente”. Analogamente, a proposito della provincia di Bihar, lo studioso Lata Singh scrive che il Congresso riuscì a crescere oltre le sue roccaforti urbane e professionalizzate e a raggiungere le campagne solo quando iniziò la mobilitazione nel 1920.
Mentre la satyagraha servì come un mezzo efficace per espandere la base del Congresso Nazionale Indiano, l’organizzazione ricevette un forte impulso anche dal lavoro sul programma costruttivo da parte dei volontari contro-culturali. I villaggi i cui residenti beneficiarono direttamente del lavoro costruttivo in termini d’igiene, sanità, formazione al lavoro e istruzione mostrarono impegno e fedeltà crescenti verso il partito. Su questo punto, Shridharani scrisse nel 1939, a proposito dei lavoratori agricoli che avevano avuto guadagni aggiuntivi grazie all’Associazione Pan-Indiana dei Filatori: “I contadini … non sono lenti a riconoscere che i miglioramenti delle loro condizioni di vita sono stati resi possibili dal Mahatma Gandhi e dalle attività del Congresso. Opuscoli e informazioni sull’attività nazionalista, quando sono forniti dai ‘depositi’ dell’associazione o dalle staffette mobili, sono ricevuti con avidità”.
La fine di un ecosistema
La lotta antimperialista in India offre un notevole esempio di una ricca ecologia del movimento sociale in azione. Il fatto che la lotta fosse in grado contemporaneamente di sostenersi attraverso ripetute ondate di proteste a livello nazionale, di costruire un forte partito istituzionale di opposizione e di coltivare comunità di persone che vivevano in contrasto con le norme comunemente accettate, rappresenta una combinazione di fatti notevole. Eppure, il movimento non era immune da tensioni interne. Al contrario, mantenere la collaborazione richiedeva sforzi continui. Sebbene l’ecosistema si fosse mantenuto per un periodo impressionante, le divisioni fra i diversi metodi di cambiamento si approfondirono gradualmente. In verità, esse avrebbero portato a una divisione al momento dell’indipendenza.
Molti membri del Congresso, specialmente quelli con un atteggiamento più moderato e legalista, non credevano nella mobilitazione di massa. Lata Singh descrive come queste tensioni fossero apparse già nel 1920, durante la preparazione del Movimento di non cooperazione. Nel Bihar, i membri anziani del Congresso “che credevano fermamente in metodi di lotta costituzionali, si opposero [all’approvazione di una] risoluzione [che autorizzasse la campagna di non cooperazione] ed espressero forti dubbi e timori sulla strategia di lanciare un tale movimento”, scrive Singh. La risoluzione fu approvata solo dopo che “questi membri anziani ebbero lasciato ‘disgustati’ l’incontro”.
Nei decenni seguenti, anche se il Congresso fece ripetutamente affidamento su Gandhi per la sua esperienza nel galvanizzare i sentimenti del pubblico, soltanto una parte dei suoi membri si sarebbe dichiarata “gandhiana”. Brown sostiene che molti nel Congresso fornirono “un sostegno ambivalente e condizionato” alle sue campagne nonviolente ed erano ansiosi di tornare alla politica costituzionale non appena la mobilitazione di massa si fosse spenta. “Gandhi accettò questo impegno limitato fra i suoi compagni e seguaci apparenti con realismo, anche se con dispiacere”, scrive Brown.
Un gran numero di politici del Congresso non s’identificò strettamente con il programma costruttivo e con la visione alternativa della società impersonata dagli ashram. Forse nel modo più evidente, Jawaharlal Nehru, quando assunse la guida del partito, ammise di non seguire il programma costruttivo in alcun dettaglio. Egli sempre più considerava romantica e antiquata la visione gandhiana della vita di villaggio; propugnava, invece, un programma di industrializzazione di stato come il mezzo più adeguato per affrontare la povertà. Non era il solo. Il segretario personale di Gandhi, Mahadev Desai, scrisse nel 1944 che “il khadi e il filatoio erano nel programma del Congresso, ma solo pochi membri avevano una fede viva … nella potenza della ruota”.
In risposta, Gandhi e i suoi “ashramiti” erano talvolta sprezzanti verso i funzionari del Congresso, dipingendoli come parlamentari meschini, troppo preoccupati del loro prestigio e disattenti alle reali condizioni di vita dei poveri. “La libertà politica non ha significato per le masse”, egli sosteneva, senza i miglioramenti economici e le riforme culturali che intendeva raggiungere con il programma costruttivo.
Quando fu ottenuta l’indipendenza e il partito del Congresso assunse il controllo del governo il 15 agosto 1947, una profonda divisione si era formata fra queste fazioni. Gandhi, allora sulla settantina, si sentì profondamente disilluso perché solo una versione limitata della swaraj stava avanzando. Avendo a lungo enfatizzato l’importanza dell’unità delle comunità e dell’armonia inter-religiosa, si sentiva straziato dalla prospettiva di una prossima divisione del Paese fra un Pakistan musulmano e un’India induista. Il biografo Joseph Lelyveld scrive di Gandhi: “Eccolo lì, alla fine dei suoi giorni, mentre esprime una delusione cronica e, talvolta, un senso di sconfitta. Egli aveva operato per l’indipendenza dell’India più di qualsiasi altro – nel proclamare l’obiettivo e farlo sembrare raggiungibile, nel convincere la nazione di essere una nazione – ma non era fra coloro che festeggiavano”.
Quando Gandhi fu assassinato, meno di sei mesi dopo l’indipendenza, la divisone fra i politici succeduti ai britannici e le comunità alternative, che si organizzavano nei villaggi, era divenuta così ampia che molti importanti leader di ogni branca del movimento non avevano praticamente interazioni l’uno con l’altro. Lelyveld scrive che, immediatamente dopo la morte di Gandhi, “i suoi eredi politici e spirituali si riunirono a Sevagram, il suo ultimo ashram, per un incontro in cui avrebbero dovuto riflettere su come andare avanti senza di lui … Vinoba Bhave, ampiamente riconosciuto l’erede spirituale di Gandhi, notò che incontrava Jawaharlal Nehru, il suo erede politico, per la prima volta”.
Negli anni seguenti, Bhave avrebbe continuato a guidare sforzi come il movimento per il dono della terra, che aveva lo scopo di convincere i proprietari terrieri a donare ai poveri una parte dei loro possedimenti. Bhave continuò a fondare nuovi ashram e a lavorare alla rivitalizzazione dei villaggi fino alla sua morte nel 1982. Nel frattempo, Nehru presiedette alla trasformazione dell’India in uno stato moderno, con caratteristiche nettamente non gandhiane, fra cui forze armate ben equipaggiate e un programma di acciaierie sostenute dal governo, miniere di carbone e, alla fine, centrali nucleari. Negli anni seguenti, l’India avrebbe visto alcune campagne di azione nonviolenta diretta – fra cui il movimento Chipko per la protezione delle foreste, che iniziò negli anni ’70. Tuttavia, queste nuove iniziative sarebbero state molto più piccole delle grandi satyagraha del tempo di Gandhi.
Passi verso la liberazione
Forse l’aspetto più notevole di questa storia non è che l’ecosistema del movimento sociale alla fine si sia frammentato, ma che sia restato unito per tanto tempo. Per alcuni decenni, le forze nazionaliste furono capaci di creare molteplici cicli di sollevazione diffusa e di assorbire le energie di queste rivolte in strutture di opposizione durature. Esse riuscirono a cambiare profondamente l’opinione pubblica nei momenti di massima mobilitazione, così come riuscirono a sostenere una cultura di resistenza durante i periodi calma relativa. Ognuna di queste realizzazioni è rara e lodevole.
Il movimento indipendentista indiano fu parte di un complesso insieme di sviluppi che portarono alla partenza dei britannici dall’India; il ruolo di Gandhi in questa storia è oggetto di un dibattito ancora in corso. Molti studiosi oggi rilevano che i fattori geopolitici – specialmente la posizione indebolita della Gran Bretagna dopo aver combattuto i tedeschi e i giapponesi – furono critici nel forzare la fine della dominazione imperiale. Eppure, come sostiene lo studioso Ananya Vajpeyi, l’ecologia del movimento sociale coltivata da Gandhi ebbe un profondo effetto nel plasmare il corso della storia indiana.
“Senza dubbio la seconda guerra mondiale accelerò la dissoluzione dell’impero britannico”, scrive Vajpeyi, “ma né gli alleati né le potenze dell’Asse vennero in soccorso dell’India: alla fine, l’India si liberò da sola”.
Nel suo ruolo di unificatore di diverse tradizioni organizzative, Gandhi ci ha fornito un modello di un ecosistema complesso del movimento sociale. Questo modello non solo contiene delle interessanti lezioni per gli studiosi dei movimenti sociali di oggi, ma mette in luce un’idea fondamentale: è molto probabile che la trasformazione avvenga non grazie ad un unico metodo di creazione del cambiamento sociale – ma grazie all’integrazione di molti di essi.
Will Lawrence ha fornito assistenza nel lavoro di ricerca per questo articolo; uno speciale ringraziamento a Guido Girgenti.